Gubbio
Gubbio è una città umbra pre-romana; rappresenta uno dei punti più caratteristici e più validi nella storia dei popoli italici. Della sua affascinante storia primitiva restano le notissine "Tavole eugubine", in lingua umbra, ed alcune con la traduzione latina a fianco. Sono le uniche tracce possibili per ricostruire la storia letteraria umbra.
Con Roma fu Municipio ed ebbe, oltretutto, il suo teatro. Il suo massimo splendore ha inizio con il Medioevo italiano e soprattutto nei secc. XI-XIV come libero Comune. Allora si arricchì di opere d'architettura e di pittura, che la rendono una delle più caratteristiche città medievali italiche.Narra il cronologo francescano padre Benvenuto Bazzocchini: «Gubbio, la colta e gentile cittadina dell'Umbria, è considerata meritamente come la seconda patria di S. Francesco.
Allorquando il figlio di Pietro Bernardone, perseguitato dal padre, diseredato e quasi ignudo, usciva d'Assisi incamminandosi alla guida della Provvidenza, questa lo condusse sulla strada di Gubbio, ove giunse, si può immaginare in quale stato, dopo le varie peripezie di quel viaggio; fra l'altro, l'incontro dei ladroni a Caprignone, i quali inflissero ogni sorta di maltrattamenti a quello che andava proclamandosi l'Araldo del Buon Dio (cf. I Cel. n. 16)». Prima di giungere a Gubbio, frate Francesco chiese ospitalità ai religiosi dell’abbazia di S. Verecondo in Vallingegno, ubicata a pochi chilometri dalla stupenda città “umbra pre-romana”.
L’abbazia, risalente al sec. XI, è legata a vari episodi della vita del Santo d’Assisi. Recita la «Passione di S. Verecondo» (sec. XIII): «Tra le cose più recenti, il beato Francesco poverello parecchie volte domandava ospitalità al monastero di San Verecondo. L’abate e i monaci l’accoglievano con grande delicatezza e devozione» (cf. Fonti francescane, parr. 2249-2251). Secondo le cronache, infatti, nella dimora benedettina di S. Verecondo sarebbe stato ospitato il giovane Francesco, quando, perseguitato dal padre, fuggì da Assisi, (altri sostengano trattasi di S. Maria di Valfabbrica).
Narra S. Bonaventura: «Si recò, poi, ad un vicino monastero, dove chiese, come un mendicante, l’elemosina, che gli fu data come si dà ad una persona sconosciuta e disprezzata» (Leg. maior, cap. II, n. 6). Sicura invece è un'altra sosta addotta dal Santo assisiate nell’anzidetta abbazia. Ne parla Tommaso da Celano: «Il servo dell'Altissimo era stato ospitato una sera presso il monastero di San Verecondo, in diocesi di Gubbio, e nella notte una pecora partorì un agnellino. Vi era nel chiuso una scrofa quanto mai crudele, che, senza pietà per la vita dell'innocente, lo uccise con morso feroce. Al mattino, alzatisi, trovano l'agnellino morto e riconoscono con certezza che proprio la scrofa è colpevole di quel delitto. All'udire tutto questo, il pio padre si commuove, e ricordandosi di un altro Agnello, piange davanti a tutti l'agnellino morto: “Ohimé, frate agnellino, animale innocente, simbolo vivo sempre utile agli uomini! Sia maledetta quell'empia che ti ha ucciso e nessuno, uomo o bestia, mangi della sua carne!”. Incredibile! La scrofa malvagia cominciò subito a star male, e dopo aver pagato il fio in tre giorni di sofferenze, alla fine subì una morte vendicatrice.
Fu poi gettata nel fossato del monastero, dove rimase a lungo e, seccatasi come un legno, non servì di cibo a nessuno per quanto affamato» (II Cel., par. 111). Dalla menzionata «Passione di S. Verecondo», si ha pure notizia che nel monastero di S. Verecondo, verso la fine della sua vita, S. Francesco avrebbe tenuto un «Capitolo» dei frati, mantenuto dalla generosità dei monaci e degli abitanti vicini. Qualcuno ho sospettato si potesse trattare del famoso «Capitolo delle stuoie» del 1221; ma nessuna circostanza storica di quel «Capitolo» può esser rapportata a questa notizia. Si può esser trattato di un altro «Capitolo», ristretto magari all'Umbria o all'Italia centrale. Altro viaggio di S. Francesco per Vallingegno è narrato da una splendida e commovente pagina sempre narrata dalla «Passione di S. Verecondo»: «(Negli ultimi anni della sua vita) il beato Francesco, che era consumato e indebolito nel corpo, a causa delle incredibili penitenze, veglie, orazioni e digiuni, massimamente dopo che era stato insignito delle stimmate del Salvatore, non potendo più camminare a piedi, viaggiava sul dorso di un asinello.
Una sera sul tardi, era quasi notte, egli passava, in compagnia di un fratello, per la strada di S. Verecondo, cavalcando l'asinello, le spalle malamente coperte d'un rozzo mantello. I contadini appena lo videro, cominciarono a chiamarlo dicendo: “Frate Francesco, resta con noi e non voler andar oltre, perché da queste parti imperversano lupi famelici e divorerebbero il tuo asinello, coprendo di ferite anche voi”. E il beato Francesco replicò così: “Non ho mai fatto nulla di male al lupo, io, perché ardisca divorare il nostro fratello asino. State bene, figli miei, e vivete nel timore di Dio!”. E così frate Francesco proseguì il suo cammino senza imbattersi in sventura di sorta. Questo ci ha riferito uno dei contadini che era stato presente al fatto».
Da Vallingegno a Gubbio. S. Francesco vi giunse certamente più volte. Il fatto che desiderò nascondervisi quando era perseguitato dal padre, e che qui avesse gli amici più cari della sua giovinezza, fa pensare a sue frequenti sortite in questa terra. Sicura è la sua sosta a Gubbio, agli inizi del 1207, presso l'amico che la tradizione presenta con il nome di Federico Spadalunga. Questi lo accolse in casa (se ne mostra la parte superstite, ora inserita nella chiesa di S. Francesco) e «gli diede anche una povera tonachella, che egli indossò come poverello di Cristo» (Leg. maior, cap. II, n. 6). Così vestito, S. Francesco si dette alla cura dei lebbrosi nel lebbrosario di S. Lazzaro, a due chilometri dalla città, sulla strada per Perugia. Si è a conoscenza che, «poco tempo dopo» (I Cel., 17), l'abate benedettino di Vallingegno, il quale inizialmente aveva riservato al Santo una non propriamente gentile accoglienza, mosso dall'esempio di santità, lo ricercò per chiedergli perdono. Difficile stabilire quando questo possa essere avvenuto.
Era allora vescovo di Gubbio il beato Villano, monaco di Fonte Avellana, il quale, nel 1213, concesse ai frati di stabilire una loro sede presso l'antica chiesa di S. Maria della Vittoria - detta anche "Vittorina" - nella pianura, quasi alle porte della città. Proprio accanto a questa chiesa, sarebbe avvenuto il notissimo episodio della “conversione del lupo di Gubbio” (Fioretti, cap. XXI).