Cortona e dintorni
Non distante dal Trasimeno, a nord del lago, è l'ammirevole cittadina toscana di Cortona. Una volta era conosciuta come la "città di S. Margherita", l'affascinante fanciulla di origini umbre, da cui venne a ispirarsi persino Dante prima di scrivere la Divina Commedia. Oggi Cortona, dopo aver riscoperto il proprio sangue etrusco, si candida a capitale dei moderni studi di etruscologia.
La ridente cittadina deve alla civiltà di questo antico popolo alcuni elementi del suo fascino, a iniziare dalla cinta della mura, dove, negli anni '90, è stata recuperata e riaperta la Porta Bifora, splendido esempio di accesso trionfale alla città. Recenti campagne di scavi hanno riportato alla luce tumuli e intere necropoli; e oggi Cortona conta ben undici siti, magistralmente unificati nel Parco Archeologico. La recente scoperta di un grande altare cerimoniale presso il "Melone II del Sodo", ha fatto intendere che molto probabilmente non era stata detta l'ultima parola su questo popolo dalle origini oscure, esperto nella divinazione e nell'arte di costruire mura inespugnabili. Nel 2005, dal fango del rio Loreto è emersa l'ennesima necropoli inviolata, con le mura perimetrali di un grande tempio. Forse ci si trova di fronte a una specie di "genius loci", un richiamo del sacro, che darebbe conto di quell'eleganza misteriosa eppure austera che contraddistingue la bellezza della cittadina toscana.
Nel Medioevo, Cortona fu la città francescana per eccellenza. Da una parte i Conventuali del Convento di S. Francesco, dall'altra i "fraticelli" dell'Eremo delle Celle, in odore di eresia. E poi S. Margherita, una scomoda Madre Teresa di Calcutta "ante litteram", considerata Santa già in vita e riconosciuta dalla Chiesa dopo un processo canonico durato tre secoli. a Accanto a S. Margherita è la controversa figura di frate Elia Bombarone di Assisi (detto anche di Cortona, perché in questa città trascorse gli ultimi travagliati tempi della sua vita).
A qualche chilometro dalle “mura” di Cortona, è il fascinoso Santuario de Le Celle, un interessantissima “pagina” della vita di frate Francesco. Il Santo assisiate, ottenuto dal Pontefice il riconoscimento della sua “Forma di vita” e la facoltà di predicare ovunque (1210), dette inizio ad un autentico itinerario apostolico, identificabile nella direttrice: Perugia-Cortona-Arezzo-Firenze. Così, nel 1211, il Santo della Pace, visitata la città di Cortona, si trasferì a Le Celle, dove dimorò il tempo necessario a edificare una piccola e umilissima struttura conventuale. Utile puntualizzare che il territorio, appartenente ad una abbazia camaldolese, era allora ingentilito da una cappellina intitolata a S. Michele Arcangelo (ben visibile in una tela all’interno del Convento, che lo raffigura sul colle sovrastante Le Celle), la quale, presumibilmente, fu visitata da Francesco d’Assisi. Quella prima dimora a Le Celle, sottolinea le inclinazioni di Francesco: egli era solito alternare periodi di attività apostolica a momenti d’intenso ritiro e contemplazione; questi secondi “momenti” spiegano il motivo per cui egli ricercasse spazi di grande solitudine, zone boscose, luoghi ove abbondavano rocce e anfratti. Il nome “Le Celle”, preesistente alla venuta dell’Apostolo umbro, era forse dovuto alla presenza di piccole fabbriche - di preferenza mulini - dislocate, sino ad epoca recente, lungo il corso del torrente, per sfruttare l’impeto delle acque. Nel complesso, però, il luogo doveva apparire remoto e selvaggio. Francesco non era solo quando giunse a Cortona: nella tappa successiva che lo vide ad Arezzo, viene infatti ricordato in compagnia di frate Silvestro. Al suo arrivo a Le Celle, il Santo scelse quale dimora un anfratto, che, stando agli “esperti”, non è difficile individuare: guardando all’esterno la struttura brasata sul fosso, la si vede aperta a mo’ di ventaglio; all’interno, nell’attuale Oratorio intitolato all’Assisiate, è visibile un blocco di pietra, solo più tardi tagliato a filo di muro, ma che originariamente doveva formare un costone roccioso, oltrepassato il quale il masso mutava inclinazione, scendendo in verticale e lasciando in tal modo un spazio libero, una specie di nicchia naturale pronta ad ospitare “qualcuno” in cerca di solitudine. L’abitacolo fu completato, certamente, da una parete di sassi sovrapposti e un tetto di paglia. Questo luogo prescelto da Francesco, forse nello stesso anno della sua prima permanenza, fu trasformato con l’aggiunta di qualche muro perimetrale nella celletta tuttora visibile e che è a capo di una stanza rettangolare, originariamente destinata a dormitorio dei compagni del Santo. Le celle dei suoi “fratres” (luoghi preposti alla preghiera individuale) non dovevano essere diverse, inizialmente, da quella del loro “Maestro”; erano, quindi, «celluzze di rami d’arbori», come le designano i “Fioretti” parlando della Verna. Le opere in muratura, per intervento del costruttore (nome che ben si può dare a frate Elia), qui iniziarono molto prima che alla Verna, cioè appena quattro anni dopo la morte di S. Francesco (1230), tanto è vero che questa tempestività scandalizzò Salimbene da Parma, il quale addebita a frate Elia di essersi costruito un luogo bellissimo, ameno e dilettevole Convento che si chiama tuttora Celle di Cortona (vd. F.F. 2616). Delle celle prima esistenti, di cui si è trovato traccia a monte di quella di Francesco, è abbastanza comprensibile come frate Elia abbia salvato solo quella del Santo, ricostruendola in muratura, e che così si è venuta a trovare isolata e unica come è al presente. Complessivamente la costruzione di frate Elia comprende lo spazio antistante la cella di S. Francesco (convertito nel ‘600 in oratorio ); il piano superiore destinato verosimilmente ai servizi della comunità, e un altro piano ancora, destinato alle celle dei frati, più un altro braccio che s’incunea verso il monte comprendente il piano del refettorio e, sopra a questo, altre celle dei frati. Stando alle fonti, il Poverello di Assisi, lasciato il “tugurio” de Le Celle, avrebbe raggiunto l’Isola Maggiore del lago Trasimeno, per celebrarvi la Quaresima; tornò nel romitaggio cortonese nel 1215, reduce dalla sua missione in Spagna; infine, nel 1226, pochi mesi prima di morire, mentre stava tornando ad Assisi da Siena, vi fece l’ultima sosta (molti sostengono che durante detta sosta, Francesco abbia dettato il “Testamento”, uno dei suoi scritti più preziosi, dove ripercorre, in sintesi, l’intera sua esperienza spirituale). Narra Tommaso da Celano: «Sei mesi prima della sua morte, (Francesco), dimorando a Siena per la cura degli occhi, cominciò ad ammalarsi gravemente per tutto il corpo. A seguito di una rottura dei vasi sanguigni dello stomaco, a causa della disfunzione del fegato, ebbe abbondanti sbocchi di sangue, tanto da far temere imminente la fine. Frate Elia, a quella notizia, accorse in fretta da lontano e, al suo arrivo, Francesco migliorò al punto che poté lasciare Siena e recarsi con lui alle Celle presso Cortona. Ma dopo pochi giorni dall’arrivo, il male riprese il sopravvento: gli si gonfiò il ventre, si inturgidirono gambe e piedi, e lo stomaco peggiorò talmente che gli riusciva quasi impossibile ritenere qualsiasi cibo. Chiese allora a frate Elia il favore di farlo riportare ad Assisi. Da buon figliuolo questi eseguì la richiesta del caro padre prendendo tutte le precauzioni necessarie, anzi ve lo accompagnò personalmente. L'intera città esultò alla venuta del Santo e tutti ne lodavano Iddio, poiché tutto il popolo sperava che il Santo finisse i suoi giorni tra le mura della sua città, e questo era il motivo di tale esultanza» (I Cel., 105). Scrive ancora il Celanese: «Un fatto simile (donazione del proprio mantello) accadde alle Celle di Cortona. Francesco aveva indosso un mantello nuovo, che i frati avevano procurato proprio per lui, quando giunse un povero, che piangeva la morte della moglie e la famiglia lasciata nella miseria. “Ti do questo mantello per amore di Dio - gli disse il Santo - a condizione che non lo ceda a nessuno, se non te lo pagherà profumatamente”.Corsero immediatamente i frati per prendersi il mantello e impedire che fosse dato via. Ma il povero, reso ardito dallo sguardo del Santo, si mise a difenderlo con mani ed unghie come suo. Alla fine, i frati riscattarono il mantello ed il povero se ne andò con il prezzo ricevuto» (II Cel., 88). Sin dal momento del primo insediamento francescano a Le Celle, fu edificata anche una minuscola cappella su di un piano rialzato, come documenta il fatto che, almeno sino al 1705, all’entrata dell’attuale refettorio dei frati, esisteva un vano devotamente custodito, con l’altare sul quale avrebbe celebrato S. Antonio da Padova: il che fa datare la cappella ad un’epoca anteriore al 1231, anno, questo, della morte del Santo portoghese. Nel 1232 sarà frate Elia, succeduto a Francesco nella guida dell’Ordine, a rivedere e a consolidare, quindi, le precedenti strutture. Nel contesto della primitiva storia francescana, Le Celle iniziano a perdere importanza quando, ad iniziare dal 1245-1246, causa l’enorme diffusione dell’Ordine e sempre per opera di frate Elia, ebbe inizio a Cortona la costruzione della chiesa di S. Francesco e dell’attiguo Convento, con criteri ben diversi da quelli usati per l’umile conventino de Le Celle. Il venerando luogo non venne però abbandonato: nel 1247 frate Elia risulta abitare nel romitaggio; lo stesso frate è ancora qui nel 1253, nel corso della sua ultima malattia; una testimonianza giurata di frate Bonizio, lo dichiara presente «in Cella sua quae est in sylva», tenendo presente che «la selva» non è altro che un sinonimo per indicare in antico Le Celle. Successivamente, per circa tre secoli, il luogo venne ad essere caratterizzato da un lungo periodo di dimenticanza e di silenzio, di decadenza e di abbandono. Nella seconda metà del Duecento, l’Eremo passò infatti al ramo francescano cadetto e spurio dei “Fraticelli”, i quali, sospettati in seguito di eresia, verranno cacciati nel 1318, e lo stabile, non reclamato dai francescani, passò alla diocesi di Cortona, che muterà addirittura il nome in “S. Angelo alle Celle”, con riferimento al sovrastante santuario di S. Michele Arcangelo. E’ nel 1537 che i Cappuccini, nati con spiccata vocazione alla «vita heremitica», ottennero dal Vescovo di Cortona, Leonardo Bonafede, il permesso di stanziarsi nel Convento de Le Celle (dove si trovano ancora). A più riprese, dall’anno del loro arrivo, sino alla seconda metà del Settecento, essi ampliarono il Conventino con nuove aggiunte, le quali, per non essere previste da un preciso progetto, conferiscono oggi al complesso quella caratteristica di disordinata semplicità, che ne definisce e ne accentua la particolare fisionomia. Per secoli, dal 1564 sino a pochi anni fa, questo luogo, ulteriormente ingentilito dalla presenza di Cappuccini «chiari di fama e santità», è sempre stato il «luogo di Noviziato», che risiedeva nella parte più alta e più lineare del Convento. Il noviziato fu trasferito negli anni ‘80, per i grandi lavori di contenimento del colle sovrastante, il quale premeva sulle strutture murarie sottostanti. Lavori che fortunatamente hanno dato, sino ad ora, l’esito sperato. Il Santuario è conservato ancora nella sua forma primitiva, ed offre magistralmente l’idea di ciò che si suole intendere per “abitazione francescana”. Tommaso da Celano, nei suoi scritti, come già riferito, cita più volte l’Eremo de Le Celle, legato al desiderio di solitudine di frate Francesco, al suo spirito di preghiera, alla sua carità, ad una primitiva esperienza di “penitenza” da parte di due coniugi: «Mentre il servo di Dio si recava alle Celle di Cortona, una nobildonna di Volusiano gli andò incontro in tutta fretta. Dopo lungo cammino, finalmente lo raggiunse ansimante, perché era persona molto delicata e gracile. Quando il padre santissimo la vide così sfinita e trafelata, ne ebbe compassione e le chiese: “Cosa desideri, donna?”. “Padre, che tu mi benedica”. E il Santo: “Sei sposata o no?”. “Padre,- rispose - ho un marito molto crudele, che mi è di ostacolo nel servire Gesù Cristo. E’ questo il mio vero tormento: a causa sua non posso mantenere i buoni propositi che il Signore mi ispira. Perciò ti chiedo, o Santo di pregare per lui, affinché Dio nella sua misericordia gli muti il cuore”.Il Padre rimase ammirato della donna dotata di un animo virile e così piena di senno pur essendo di giovane età. E le rispose molto commosso: “Va, figlia benedetta, e sappi che tuo marito in futuro ti sarà di consolazione”. E aggiunse: “Gli dirai da parte di Dio e mia, che ora è tempo di salvezza, ma più tardi di giustizia”. E la benedisse. La donna se ne tornò a casa ed incontrato il marito riferì quanto le era stato ordinato. Lo Spirito Santo scese improvvisamente su di lui, e trasformatolo da vecchio in uomo nuovo, lo indusse a rispondere con tutta dolcezza: “Donna, serviamo il Signore e salviamo le nostre anime qui nella nostra casa”. “A me pare - soggiunse la moglie - che dovremmo porre come fondamento, per così dire, nella nostra anima la continenza, e poi edificarvi sopra le altre virtù”. “Sì, piace anche a me, come precisamente a te”, concluse il marito.Vissero molti anni in castità, e poi passarono da questa vita beatamente nello stesso giorno, uno come olocausto del mattino e l’altro sacrificio della sera.Donna invidiabile, che ha piegato così il marito alla vera vita! Si avvera in lei il detto dell’Apostolo: il marito non credente si salva per mezzo della moglie credente. Ma queste donne, come dice un proverbio assai comune, oggi si possono contare sulle dita» (II Cel. 38).
Giovanni Joergensen, nella sua deliziosa monografia: “Il libro del pellegrino” (1918), a proposito del Convento de Le Celle, scrive: «A Cortona discendo. Voglio visitare la città di quella santa Margherita, di cui altra volta ho raccontata la storia, e, ne’ pressi della città, l’antico convento francescano di Celle.Cortona vista dal basso ha un aspetto dei più interessanti, con la sua chiesa di santa Margherita che sorge sopra il suo punto più alto; essa è moderna, ma costruita nel vecchio stile pisano, in cui risalta l’alternanza dei marmi bianchi e neri. Da vicino questa città mi si presenta come una mediocre copia di Assisi; anche la veduta che si gode dall’alto delle sue mura richiama alla mente quella più vasta e incantevole di Assisi.Subito, dopo mezzogiorno, vado a Celle. Fa caldo: la vasta e ubertosa Val di Chiana tappezzata di estesi campi verdi regolarmente spartiti e di vigneti, sparsa qua e là di cipressi, si distende in una calda caligine, colle sue strade bianche, chiusa dalle azzurre montagne, lontane. Il cuculo canta, alcune farfalle volano intorno a me. Mi fermo un momento e mi volto verso Cortona. Anche qui, come ieri ad Assisi, una città sorge in cima a un monte con una rocca sulla sua sommità e, un poco più basso, un campanile che ricorda quello di Santa Chiara. Pur tuttavia, ai miei occhi, la città è vuota, e vuoto è tutto il paese che la circonda. Stamattina senza dubbio, lasciando Assisi, vi ho dimenticato il mio cuore; il mio cuore è rimasto nell’Umbria; cosa vado a fare, senza di lui, nella Val di Chiana?Per riprendere me stesso, penso al convento che vado a visitare, alla sua origine, alla sua storia.Celle è uno dei più antichi soggiorni francescani. Quando, nel 1211, San Francesco in compagnia di frate Silvestro venne a Cortona, convertì prima frate Elia - uno degli uomini che dovevano ben presto spiegare la maggiore azione sullo sviluppo e sull’evoluzione dell’Ordine - poi Guido Vagnotelli che doveva entrare, insieme al suo maestro, nel numero dei beati. Questo Guido Vagnotelli era giovane e ricco, e tutto fa credere che a lui si riferisca quanto ci raccontano i Fioretti al cap. XXXVII, e cioè ch’egli ha accolto San Francesco e il suo compagno "come Angeli di Dio, con grandissima cortesia e divozione; per la qual cosa Santo Francesco gli puose grande amore, considerando che nello entrare nella casa egli sì lo aveva abbracciato e baciato amichevolmente, e poi gli aveva lavati i piedi e rasciutti e baciati umilmente, e racceso un gran fuoco, e apparecchiata la mensa di molti buoni cibi; e mentre che costui mangiava, con allegra faccia serviva continuamente.Ora, mangiato ch’ebbe Santo Francesco e il compagno, disse questo gentiluomo: Ecco, padre mio, io vi proffero me e le mie cose: quantunque volte voi avete bisogno di tonica o di mantello, o di cosa veruna, comperate, e io pagherò, e vedete che io sono apparecchiato di provvedervi in tutti i vostri bisogni, perocché per la grazia di Dio io posso, conciossiachè io abbondi in ogni bene temporale: e però per amor di Dio, che me l’ha dato, io ne fo volentieri bene alli poveri suoi. Di che, veggendo Santo Francesco tanta cortesia e amorevolezza in lui, e le larghe profferte, concepettegli tanto amore, che poi partendosi egli andava dicendo col suo compagno: Veramente questo gentile uomo sarebbe buono per la nostra religione e compagnia, il quale è così grado e conoscente in verso Iddio, e così amorevole e cortese allo prossimo e alli poveri. Sappi, Frate carissimo, che la cortesia è una delle proprietà di Dio, il quale dà il suo sole e la sua piova alli giusti e alli ingiusti, per cortesia, ed è la cortesia sirocchia della carità, la quale spegne l’odio e conserva l’amore. Perché io ho cognosciuto in questo buono uomo tanta virtù divina, volentieri lo vorrei per compagno: e però io voglio che noi ritorniamo un dì a lui, se forse Iddio gli toccasse il cuore a volersi accompagnare con esso noi nel servigio di Dio; e in questo mezzo noi pregheremo Iddio, che gli metta in core questo desiderio, e diagli grazia di metterlo in effetto".E in seguito, nello stesso capitolo dei Fioretti leggiamo anche in che modo questo ricco e gentile cavaliere si convenisse e entrasse nell’Ordine. "Allora Santo Francesco veggendo che la sua orazione era esaudita da Dio e che quello che desiderava, quello gentile uomo addomandava con grande istanzia; lievasi suso, e in fervore e in letizia di spirito abbraccia e bacia costui, divotissimamente ringraziando Iddio, il quale uno così fatto Cavaliere avea accresciuto alla sua compagnia. E dicea quello gentile uomo a Santo Francesco: Che comandi tu che io faccia, padre mio? Ecco ch’io sono apparecchiato al tuo comandamento, e dare a’ poveri ciò che io posseggo, e teco seguitare Cristo, così iscaricato d’ogni cosa temporale; e così fece, secondo il consiglio di Santo Francesco, ch’egli distribuì il suo a’ poveri, ed entrò nell’Ordine e vivette in grande penitenza e santità di vita, e conversazione onesta".Il giovane gentiluomo, Guido Vagnotelli abitava al convento di Celle, ma cinque anni prima della sua morte nel 1245, questo convento fu abbandonato dalla maggior parte de’ frati che - istigati da frate Elia - si trasferirono in un convento più grande e più comodo, che si vede anche oggi, in mezzo a Cortona. Rimasero soli, a Celle, Guido Vagnotelli e un piccol numero di frati, che la pensavano come lui; questi restarono lassù nella selvaggia solitudine della montagna, sul margine del fragoroso torrente, che si precipita dall’alto del Monte Sant’Egidio e passa vicinissimo all’eremo. Ora il convento è abitato dai Cappuccini; per questo il popolo gli ha cambiato nome, e chi vuol andarci, non domandi la strada per Celle, ma per i Cappuccini.Arrivo, finalmente, al convento e scopro uno dei luoghi più caratteristici, più fantastici e strani, ch’io abbia mai veduto.In fondo a una gola profonda, tagliata nel monte Sant’Egidio, scorre rapido un selvaggio torrente, sopra cui sono gettati dei ponti di pietra, che hanno un solo arco molto alto e snello. Il convento si trova diviso nei due lati di questa gola ed è costituito di gruppi sparsi di piccole casette costruite le une sulle altre, a terrazze, e circondate da piccoli giardini in cui veggo lavorare dei frati, vestiti di panno bruno. E dappertutto: scale, terrazze, muri di sostegno, pilastri, campanili, frontoni, alberi: in cima, un bosco di querce e di cipressi.La stradetta irregolarmente lastronata conduce a zig-zag fino in fondo alla gola passando sopra uno de’ ponti, sotto il cui arco acuto precipita il torrente verdastro, con un continuo ruggito: poi con un nuovo zig-zag risale dall’altra parte e mi conduce infine ad una piazza verde, la tradizionale piazza che è, quasi sempre, davanti all’entrata d’un convenuto, con la sua solita croce. Sotto il tettino, spiovente, di un portico basso si aprono l’entrata del convento e quella della chiesa; in un angolo della piazza, una tavola di pietra è circondata di sedili, pure di pietra; mi dicono che questa piazza, la domenica, serve di luogo di riposo per gli abitanti di Cortona che vengono quassù portandosi la merenda, dentro i panieri.Questa posizione pittoresca è, del resto, la più attraente caratteristica del convento di Celle, che non conserva, a ricordo di San Francesco, se non una cella in cui il Santo soleva pregare. Un cappuccino - barba nera, occhiali, denti bianchi sorriso gaio - mi conduce a vederla. E’ un piccolo ripostiglio, semioscuro, umido e freddo, con una specie di feritoia che guarda il torrente e la roccia nuda che la domina. Una Madonna bizantina decora l’unico muro della cella.Ben presto lascio il convento; pioviscola. Un artigiano, con cui, strada facendo, ho attaccato il discorso, mi conduce, per una ripida scorciatoia, nella città alta, alla chiesa di Santa Margherita. Quando arriviamo, sono fradicio fino alle ossa, e di già la chiesa è oscura, ma i buoni Francescani, che abitano il convento vicino, fanno per noi quanto possono, mostrandoci tutte le cose più interessanti: - "Qui si trovava la cella di penitenza di Santa Margherita, poiché allora questo posto non era che un angolo deserto e nudo della montagna, al di sopra della città; lassù si vede ancora il crocifisso che parlò alla santa, e qui sul lato posteriore del suo sarcofago, all’altar maggiore, ecco il suo ritratto, quale è stato dipinto da Pietro da Cortona; fedele rappresentazione del cadavere, che s’è conservato intatto fino a questo giorno"».
Dal sito “ufficiale” del Santuario de Le Celle di Cortona (www.lecelle.it), è tratta, seppur succintamente, la descrizione dell’imponente complesso conventuale.Delle cellette originarie (tracce delle quali sono state rinvenute a monte di quella di frate Francesco), frate Elia ha voluto conservare solo quella abitata dal Santo, ricostruendola in muratura. La cella risulta essere isolata dal resto del complesso.
La struttura conventuale, al tempo di Elia, comprendeva lo spazio antistante la cella di S. Francesco (convertita, nel ‘600, in Oratorio); il piano superiore, destinato ai servizi della “Fraternitas”; un secondo piano, destinato alle cellette dei frati; un braccio che si incunea verso il monte, destinato: sotto, al refettorio e sopra, ad altre cellette dei frati. La comunità francescana delle Celle, causa il vertiginoso “lievitare” delle vocazioni, fu costretta, pochi decenni dopo la “nascita” dell’Ordine, ad ampliare lo spazio abitabile. Inizialmente, ai bordi del torrente, fu prolungato l’edificio voluto da frate Elia; lo stesso, avendo una inclinazione leggermente deviata verso il corso d’acqua, sembra come isolarsi dal resto del complesso.
Successivamente fu edificata la foresteria: il primo edificio che si incontra entrando nel convento dal “ponte superiore”. In epoca posteriore la costruzione venne rialzata di un piano. Nella seconda metà del sec. XVI, con l’insediarsi dei Minori Cappuccini, venne edificato il Noviziato: una struttura nella parte superiore del preesistente convento, che comprende una ventina di cellette, aventi quale caratteristica le stesse misure della cella abitata da S. Francesco (1 m x 2 m).